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D’Annunzio autore scomodo

Forse non sono bene informato, o forse è solo una mia impressione, ma mi pare che fino a questo momento il mondo del teatro abbia celebrato in un assordante silenzio il fatto che il 2013 è l’anno in cui si celebrano i 150 anni dalla nascita di Gabriele d’Annunzio e, contemporaneamente, 75 anni dalla sua scomparsa. L’unica traccia che ho trovato riguarda uno spettacolo, su testo tratto da un’opera di Giordano Bruno Guerri e interpretato dal bravo Edoardo Sylos Labini, che rievoca momenti della vita del poeta pescarese.
Il nostro paese è chiamato ad affrontare problemi assai impellenti e gravi, la crisi economica morde ancora in modo doloroso, la contrapposizione politica continua ad alimentarsi solo di contrapposizione, lo stimolo alla cultura è ridotto ai minimi termini e, probabilmente, non lo si può nemmeno chiamare stimolo, ma più realisticamente ossigeno minimo indispensabile alla sopravvivenza.
Ciò premesso, certe date non possono essere dimenticate. So benissimo che da sempre d’Annunzio ha suscitato forti contrasti anche ideologici, ma mi pare che a così tanti anni dalla sua morte si possa guardare alla sua opera con occhi abbastanza sereni. Naturalmente, essendo questo un sito dedicato al teatro, è a questo mondo che rivolgiamo un appunto.
L’opera teatrale dannunziana, considerata nel contesto in cui è nata, presenta caratteri di innovazione sia nei contenuti che nella forma che nella lingua. Ad esempio, la verbosità immaginifica nella quale avvolge cose e personaggi può piacere o non piacere, ma la musicalità che vi si ravvisa era di assoluta novità. Certo, quello che ci colpisce è più bello che profondo, in certi momenti appare come un puro esercizio cerebrale, ma il risultato scenico – anch’esso col concorso di scenografie sovrabbondanti – fu quanto di più distante dal teatro che lo aveva preceduto si potesse immaginare.
D’Annunzio lo dice chiaramente nella lettera-prefazione di Più che l’amore:
Lo spettatore deve avere coscienza di trovarsi innanzi a un’opera di poesia e non innanzi a una realtà empirica. […] E’ necessario ripetere ancora che nello spazio scenico non può aver vita se non un mondo ideale?
Certo, la sua pretesa di ripercorrere, anche se con moderni accenti, la tragedia classica non si è realizzata; oggi non ci sono più verità e forze assolute in lotta tra loro sopra la testa dell’essere umano. Nel mondo contemporaneo al “Vate d’Italia”, al di là della crisi delle grandi costruzione metafisiche, era apparso Freud e l’accento si era spostato sui conflitti psicologici.
Ma quelli che affronta d’Annunzio non sono quelli del teatro borghese imperante:
Le figure della mia poesia insegnano la necessità dell’eroismo. […] La mia tragedia […] celebra le più ardue vittorie del coraggio umano su la sventura e su la colpa. Ella afferma ed esalta l’istinto agonale come solo creatore di bellezza e di signoria nel mondo.
Forse così si spiega il fatto che d’Annunzio abbia incominciato a scrivere per il teatro in concomitanza col suo discendere nell’agone della politica attiva riuscendo a farsi eleggere deputato.
Ciò che precede non ha voluto essere certamente una disamina dell’opera dannunziana, ma un semplice richiamare l’attenzione su date ricordando le quali ripassiamo e ricordiamo donne, uomini e fatti della nostra storia; tutte realtà che sono il patrimonio originario di quello che siamo oggi.

Gilberto Calindri
Agropoli, 23 settembre 2013

 

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